A cura di Panos Bourlessas e Samantha Cenere
Da quando lo spettacolo teatrale “Foodification- Come il cibo si è mangiato la città” è nato, nel 2017, la parola “Foodification” è diventata centrale nei dibattiti critici intorno alle trasformazioni urbane legate al cibo a Torino. Il neologismo “foodification” unisce le parole “food” e “gentrification” e corrisponde, quindi, a quello che nella letteratura scientifica viene definito come “food gentrification”, ovvero la gentrificazione dello spazio urbano tramite il cibo, i suoi spazi e il suo consumo. Nel processo di “food gentrification”, lo spazio commerciale di un quartiere cambia attraverso il cibo ed è questo stesso cambiamento che prepara, favorisce e contribuisce a un cambiamento più ampio dello spazio residenziale del quartiere, dal quale residenti che appartengono a delle categorie socioeconomiche deboli vengono esclusi e dislocati.
Allora, se la gentrification in generale corrisponde a esclusione e dislocazione, in che modo il cibo può contribuire a queste dinamiche? E può un elemento così quotidiano, basico, magari anche banale, escludere e dislocare? La risposta è sì, perché nella food gentrification non è il cibo di per sé ad esercitare un impatto così significativo ma lo sono invece certi tipi di cibo e certi spazi dedicati al consumo di quei cibi. Insomma, la food gentrification ha luogo sulla base di una ricostruzione sia del cibo che dei suoi spazi: il cibo “biologico”, “locale”, “etico”, “autentico” e “artigianale” non può consumarsi ovunque; al contrario, richiede certi spazi come piccole botteghe, ristoranti di nicchia e mercati di artigiani. Il consumare questo cibo in questi spazi prevede, mantiene, riproduce, e dimostra il possesso di tre forme di capitale: economico, culturale, e culinario. L’ultimo riguarda l’apprezzamento di una certa estetica intorno al cibo, un’estetica diversa da quella che caratterizza il consumo di massa. L’incrocio di queste tre forme di capitale nello spazio performa esclusione per chi non lo possiede; lo spazio acquisisce quindi significati nuovi, specifici, in ultima istanza escludenti. E l’esclusione di chi ci abitava o consumava già in questo spazio può diventare dislocazione sia diretta che indiretta.
Questo breve testo presenta l’esperienza di Porta Palazzo a Torino come un caso empirico delle suddette dinamiche che oramai sono globali, e pone la domanda: attraverso quali mezzi la foodification si svolge nel quartiere, cambiando il paesaggio commerciale in modi potenzialmente escludenti e dislocanti? Porta Palazzo è diventata il luogo emblematico della foodification torinese soprattutto dopo l’arrivo del Mercato Centrale nel cuore del mercato all’aperto di Piazza della Repubblica, nel 2019. Infatti, grazie alla visibilità sia della sua struttura fisica (l’edificio cosiddetto Palafuksas) che del marchio in sé, Mercato Centrale ha segnato, nella maniera più evidente, il territorio locale con un tipo di consumo di cibo percepito come estraneo, ma spesso anche alienante ed opposto, rispetto a quello che tradizionalmente apparteneva al mercato di Porta Palazzo. Ciò nondimeno, nella foodification vengono coinvolti certi elementi che vanno oltre il Mercato Centrale e che riguardano altri spazi, meno visibili ma perciò potenti nel mutamento dello spazio commerciale. In particolare, due elementi contribuiscono a questo processo: la materialità, e le pratiche. Attraverso questi e la loro interrelazione, il cibo acquista delle proprietà che possono escludere e dislocare. Perché attraverso questa materialità e queste pratiche emergenti, il cibo viene ridefinito; non è più semplicemente “cibo”, e non è per chiunque.
La materialità della foodification comprende oggetti nuovi che mediano la produzione e il consumo di cibo, mutandone il significato. Macchine legate alla produzione di alimenti come mulini, schermi che proiettano la coltivazione di cereali, barattoli con diversi tipi di terreno in esposizione, o la riproduzione di una camera di stagionatura in legno non processato, sono elementi fisici che portano la produzione dentro uno spazio di consumo. Attraverso cartelli, gli alimentari venduti diventano prodotti firmati, che appartengono a delle personalità significanti. Elementi della funzione precedente di un locale vengono mantenuti ed enfatizzati come simboli di collegamento col passato, di storicità. Le materie prime di un piatto non necessariamente “tipico italiano” vengono scelte con cautela e provengono esclusivamente dall’Italia per preservare una percepita “italianità” del cibo. In tutta questa economia materiale e visuale, il cibo viene ricostruito come “artigianale”, “locale”, “biologico”, “etico”, infine distinto dal cibo che occupa la maggior parte del mercato di Porta Palazzo.
Assieme a una nuova materialità culinaria, la foodification introduce anche nuove pratiche di consumo di cibo. Oltre che pratiche di consumo precedentemente assenti a Porta Palazzo e che mostrano uno status economico-sociale elevato, come nel caso del brunch, si tratta principalmente di pratiche legate alla conoscenza culinaria: della provenienza, della qualità, della produzione di ciò che si ingerisce. L’acquisto di un certo tipo di farina implica anche il praticare la macinatura dei cereali che diventano farina. Il prendere un caffè al nuovo bar della piazza implica anche una sorta di “esibizione” da parte del barista, che si dilunga in spiegazioni sulle proprietà dei vari tipi di caffè disponibili, e sulla loro provenienza. “Siamo venuti qua (a Porta Palazzo) per istruire la gente”, ha detto la barista di un nuovo fusion bar appena aperto nella piazza. Attraverso queste pratiche, il cibo non è semplicemente consumato; è ricostruito come qualcosa da conoscere, da padroneggiare, da mostrare.
Dunque, tramite la materialità e le pratiche, la foodification plasma lo spazio commerciale del quartiere in modo da creare uno spazio nel quale si può consumare una nuova categoria di cibo: un cibo distinto, diverso e che differenzia. La creazione di questo spazio nuovo viene favorita da alcune iniziative istituzionali che, negli ultimi anni, stanno provando a ridefinire la città di Torino come una città di e per un cibo in vari modi distinto. I discorsi attorno, ad esempio, a Slow Food e alla Capitale del Gusto, ora vengono concretizzati a Porta Palazzo dalla materialità e le pratiche introdotte dalla foodification, che interessa sia la scala del quartiere che quella della città intera. La foodification è la materializzazione di uno spazio sempre più ampio dedicato al cibo distinto. E l’accesso al consumo di questo cibo, ovvero l’accesso agli spazi dedicati al consumo di questo, è una questione di privilegio: consumatori e consumatrici che non possiedono il capitale necessario (economico, culturale e, alla fine, culinario) vengono esclusi ed escluse dietro l’etichetta di cibo variamente detto “di qualità”. Nessuno/a può accusare un cibo “locale”, “autentico”, “organico”, “etico”. E se qualcuno/a lo può, forse bisognerebbe dislocarsi dal quartiere.
Panos Bourlessas è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Culture, Politiche e Società, Università di Torino
Cenere Samantha è assegnista di ricerca presso il Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio, Politecnico e Università di Torino